[secondo racconto breve]
I non morti erano sulle nostre tracce, non correvamo abbastanza, nel giro di qualche minuto ci avrebbero raggiunto se avessimo continuato a proseguire con quella velocità, stavamo giocando a perdere. Jim perdeva troppo sangue, il proiettile aveva scavato in profondità la sua gamba, passando per il ginocchio. Dalla ferita sgorgava pieno di vita il suo fiume di morte, in piena, la stagione delle piogge lo stava affogando tra le rapide del suo torrente. Fu allora che svenne, smise di parlare, lasciando solo, nell'aria, il suono dei piedi in corsa ed il nostro respiro affannoso, stanco, distrutto, lo stesso rumore d'una tempesta di mare. Decidemmo di lasciarlo lì, un paio di parole ed uno sguardo d'intesa decisero della sua vita, con la barella di fortuna in mezzo alla strada, sotto il chiarore della luna, ad annegare nella sua pozza troppo scura per il rispecchio delle stelle. Non li avrebbe fermati, questo no, il suo corpo caldo non avrebbe placato la loro fame, il sangue secco tra i loro denti voleva tornare a bagnarsi, colorarsi ancora del vivo rosso, strappare la carne, viva o già morta che fosse. Avremmo guadagnato qualche minuto nella nostra corsa senza fine, qualche istante di vita in più, un'altra boccata d'aria e speranza, mentre ogni cosa crollava e moriva in pochi, confusi, frenetici secondi... grazie, Jim.
Ricominciammo a correre.
I veloci rintocchi dei nostri cuori scoccarono le due ore, centoventi minuti, settemiladuecento secondi d'agonia, stretti nella morsa della paura, il terrore non aveva ancora smesso di bussare alle porte della nostra mente, le immagini dei corpi dilaniati, fatti a pezzi nei loro laghi di sangue ci accompagnava nella corsa. I polmoni, secchi, ridotti a due buste di foglie morte, sempre più pressati nel petto... odiavo correre, ai tempi del liceo. Le gambe, a pezzi, tiravano per i crampi, gli spasmi muscolari ed il desiderio irrefrenabile di fermarsi, anche solo un minuto, respirare, sputare il sangue salito in gola e seccato sul palato, non saremmo resistiti a lungo.
Stavamo rallentando.
Le stelle splendevano, ci osservavano maligne, celando sorrisi di piacere nel vederci, mentre gareggiavamo con la nostra sorte. Sotto il chiarore della luna estiva gli sconfinati campi si illuminavano, la stradina nel mezzo della coltivazione di grano pareva una passerella d'inferno, e le spighe, alte, come un muro scuro, mentre si muovevano, vive, con la brezza notturna, dimora perfetta per loro, in attesa, nell'ombra. Fu questione d'un attimo, non feci in tempo a vedere i loro occhi porpora rilucenti nel buio che iniziarono a battere il terreno, letto dei tanti cadaveri lasciati a marcire nelle campagne, nelle città, ovunque. Ci correvano contro, gli occhi sbarrati, rossi, i volti martoriati e sulla via della putrefazione coperti di sangue e terra secca, gli abiti strappati, lerci, come il corpo, dei randagi con fame implacabile. "Merda!" Urlò Marcel, lo stavano puntando. Continuai a correre più veloce che potessi, la mente vuota, senza pensieri, eravamo le gazzelle da sbranare in quella savana senza leoni. Mi spinsi il più a destra possibile della strada, Marcel, sulla sinistra, piangeva lacrime di un uomo che non vuole morire, mentre loro sembravano sorridere, guardandolo, in corsa, con la forza di un treno merci, ansiosi dell'impatto. Marcel accelerò, capii cosa volesse fare. Mi stava superando, non so con quali energie, per spostarsi poi sulla mia corsia... voleva schivarli, andare oltre e lasciarmi indietro, da solo. Aumentai a mia volta, eravamo fianco a fianco, 'fanculo quei bastardi, era una questione tra me e lui, ora, mai in vita mia sentii di odiare di più una persona, mai nella mia vita ho odiato così mio fratello. Erano vicini ormai, molto, troppo, e l'istinto prese il sopravvento, ma lo realizzai solo quando vidi la mia mano, chiusa, come un sasso, colpire il suo volto rigato dal pianto. Volò a terra, non mi voltai, riuscii a scansare la mano d'uno di loro mentre mi sfrecciarono sulla sinistra, ma ormai io non contavo, ormai il loro obiettivo era in terra, urlante, paralizzato e senza forze, Marcel era già morto.
Ero vivo, ancora vivo, ancora in corsa, scientificamente inspiegabile il mio restare in piedi, fuori logica il meccanico movimento delle mie gambe, continuanti ad avanzare in automatico. Pensai a Marcel, fratello da 23 anni, miglior amico da sempre, immenso odio nell'attimo più lungo della mia vita, salvezza nell'istante più orrendo di niente.
Nessun rimpianto.
Corsi ancora per una trentina di minuti, poi, come una visione, sotto il chiarore lunare, una casa sulla cima d'una collina. Avrei potuto passare il resto della notte, dormire magari, sempre che non fosse già occupata da quei fottuti, ma dovevo rischiare, ero nel labirinto di Cnosso, stavo giocando a carte la mia esistenza ed ero terribilmente scoperto. Arrivai sulla soglia, non un suono, non un rumore, solo il mio respiro, figlio d'una coppia di polmoni in crisi, mentre il battito del cuore era un martello pneumatico nei timpani e il sangue, come in una condotta forzata, veniva pompato nelle vene, ingigantendole, facendole sporgere dalle braccia, dal collo... ero sfinito. La porta era aperta, non mi sembrò un buon segno, ma la voglia di sedermi, riposare, era troppa. Spinsi l'uscio accostato che, con i suoi vecchi cardini piangenti, si aprì cigolando, un lamento che mi sarebbe potuto costar caro, ma non odi nulla. Entrai. La pelle d'oca fu d'obbligo, mentre la fantasia viaggiava su binari cupi, pericolosi, mi sembrò di tornare ai 12 anni, davanti al computer, la prima partita a Doom, tra pareti coperte di sangue e mostri d'incubo dietro gli angoli. Esplorai il primo piano: il nulla. Solo mobili ribaltati e cocci di vetro sparsi, mi mancava vivere. Salii le scale, nel buio quasi totale, avanzavo a ridosso del muro quando, in un angolo, urtai qualcosa. Non era il classico sacco di farina da soppalco di campagna, i sacchi non urlano. Quelle grida femminili di terrore mi fecero morire, per qualche secondo, poi mi buttai in terra, a tentoni, la trovai e le tappai la bocca: "Zitta, brutta troia!". Mi vergognai d'averlo pensato, tempo dopo. Lei piangeva mentre la stringevo, mentre abbracciandola le sussurravo "Su su, è tutto a posto", mentendole. Cercai di calmarla, come mio nonno mi consolava a 6 anni, dopo le cinghiate di papà. Smise di singhiozzare e dopo un infinito silenzio mi chiese chi fossi. Iniziammo a parlare, a raccontarci, mentre l'unico raggio lunare che filtrava da una fessura del soffitto andava a baciarle il viso, seguendo il lontano moto del pianeta. Non era stupenda, Sofie, ma in quegl'attimi mi sembrava essere la ragazza più bella del mondo, la mia Miss Universo compagna di sventura, la mia nuova principessa. Le parole scorrevano.
Le strappai un sorriso, poi una risata al sapore di primavera, infine i vestiti.
Eravamo nudi, il pavimento freddo regalava piccoli sussulti al tatto di quelle zone morte lontane dai nostri corpi. Le entrai dentro, senza bussare. Quel reggiseno che non si slacciava, dio quanto mi faceva incazzare, mentre nel buio assaporavo quel sudore dai suoi seni, sentivo le curve del suo fondoschiena muoversi, irrigidirsi e poi ancora muoversi, stavamo ballando il valzer del nostro primo appuntamento. Il lento partire di quella conoscenza si stava ora riscaldando, aumentando di velocità, salendo di giri, tra i suoi spasmi ed il suo ansimare, avevo ripreso la mia corsa ma, stavolta, avrei tagliato io il traguardo, gli infetti non potevano più prendermi. Mentre la nostra danza prendeva forma, sotto i riflettori di un solitario raggio di luna, qualcosa si muoveva al piano di sotto, annusava, ascoltava, saliva le scale. Sofie era un'ottima ballerina ed in quel suo orgasmo alzai gli occhi, come dopo un caschè , per guardare il pubblico in contemplazione, allora la lasciai, improvvisamente, nel suo passo migliore, al freddo. Fece girare lo sguardo per la stanza, cercandomi, in confusione, e capì. Era tardi, Sofie aveva cambiato compagno, aveva cambiato ballo, aveva cambiato vita. Mi aveva lasciato, tradito per un altro, abbandonato il mio amore per buttarsi tra le braccia di lui. Come un messaggio appeso al muro, un promemoria da frigo, una nota dell'agenda, lessi le sue ultime parole d'addio, su quelle labbra che avrei voluto mie ancora un attimo, ancora un istante:
"Corri".
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Adrenalinico.
RispondiEliminaMi ha convinto meno il finale, ma nel complesso mi è piaciuto moltissimo.
Marcel, fratello da 23 anni, miglior amico da sempre, immenso odio nell'attimo più lungo della mia vita, salvezza nell'istante più orrendo di niente.
La brutalità della natura umana è tutta qui. Splendido passo.
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